L’impossibilità della «macroevoluzione»  


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Dominique Tassot  

Il «gradualismo» rese credibile la concezione di Darwin; ovvero l’idea che l’accumulo di piccoli cambiamenti nell’arco di migliaia d’anni finissero per illustrare il divario che separa i generi o le famiglie. Venne dunque ammessa la visione di una continuità universale nella natura.

Però il vivente è discontinuo, ce lo dimostrano chiaramente l’anatomia, la biologia molecolare e la genetica. Tra il collo di una zebra e quello di una giraffa, per riprendere l’esempio di Lamark, non cambia soltanto la lunghezza, ma anche il numero di vertebre. Per restare flessibile, un collo lungo necessita di un maggior numero di vertebre. In anatomia, si parla sempre di numeri interi. Tuttavia il processo che aggiunge una vertebra al collo di un mammifero non ha nulla in comune con la trazione del dito che allunga un elastico. Darwin, per primo, avrebbe volentieri ammesso che la selezione naturale non è in grado di fornire un qualsiasi organo a una pianta o ad un animale: la selezione naturale si esercita su organi pre-esistenti; non avrebbe saputo spiegarne l’apparizione. Occorreva quindi immaginare un fattore di variazione, oggi si direbbe un «creatore di nuove informazioni». Per questo Darwin aggiunse l’eredità dei caratteri acquisiti, ma dopo le esperienze di Weiseman (1892) , fu necessario abbandonare questo convincimento.

La soluzione di scorta, immaginata dai neo-darwinisti, consiste nel ricorrere alla mutazione aleatoria. Se paragoniamo il genoma ad un lungo messaggio formato da frasi (i geni), composte da parole (i codoni) e da lettere (le basi), possiamo immaginare che le lettere si spostino e modifichino il messaggio: ecco una mutazione. Essa è ereditaria, in quanto influisce direttamente sul cromosoma, che è l’elemento di transito al momento della moltiplicazioni cellulare. Grazie a de Vries, che pubblicò nel 1909 « Specie e varietà, loro origine per mutazione » e soprattutto dopo gli esperimenti condotti da Thomas Morgan (1866-1945) sul moscerino dell’aceto a partire dagli anni venti, siamo riusciti a completare centinaia, anzi migliaia di diverse mutazioni. Per esempio, siamo riusciti a far uscire dei piedi al posto di antenne e viceversa (mutazione antenna-podice) oppure a fare nascere mosche senza ali né occhi, ecc. Nei vegetali, siamo stati in grado di produrre una varietà di arance senza semi e abbiamo costantemente creato nuove varietà di rose o di tulipani.

Esiste in natura la variabilità del genoma; essa è favorita dalla riproduzione sessuata, ma è altresì ben visibile nei batteri. Abbiamo visto apparire varietà di piante resistenti a un erbicida, o microbi resistenti agli antibiotici. Ora però, a settanta anni di distanza, ci rendiamo conto dei limiti della variabilità, spontanea o provocata, negli esseri viventi.

La mutagenesi non è più considerata la strada del futuro per quanto concerne la creazione di varietà domestiche. Nel 2008, nel corso di una conferenza internazionale tenutasi a Roma, il Prof. Maciej Giertych, professore emerito di Dendrologia presso l’Accademia delle Scienze polacca, dichiarava:

«La maggior parte dei laboratori chiudono i loro programmi di mutagenesi. Con questa tecnica è stata ottenuta una quantità molto ridotta di varietà utili, che sono “utili” solo dal punto di vista dell’uomo. Alcune forme nane permettono di bloccare i massi con le loro radici oppure di decorare i giardini con delle rocce. Alcune piante particolarmente sensibili possono servire per controllare il livello di inquinamento. Alcune piante ornamentali sono state private di pigmenti naturali tramite mutagenesi. In ogni caso, le piante ottenute sono biologicamente più povere e meno resistenti dei loro ceppi non mutati. Esse sono state private di caratteri utili nelle condizioni naturali. Sappiamo bene che numerose mutazioni sono deleterie e le temiamo. Noi stessi cerchiamo di proteggerci e di proteggere le riserve genetiche selvatiche di diversi agenti mutageni. Abbiamo limitato gli esperimenti nucleari, le esposizioni ai raggi X, all’amianto. (…) Un adattamento che impedisce a un diserbante chimico di agire è positivo, soltanto nella misura in cui protegge le funzioni esistenti. Non fornisce alcuna nuova informazione che spiani la strada a nuove funzioni o nuovi organi. In questo caso non si riesce a trovare alcuna argomentazione in favore della teoria dell’evoluzione»

     L’evoluzione ci viene sempre presentata come un miglioramento. In realtà però la mutazione è visibile piuttosto dagli albini oppure nei non vedenti nati! I mutanti che vediamo oggi non sono dei superuomini fantascientifici, ma individui segnati da una malformazione congenita oppure dei disabili. I bambini con sei dita oppure le pecore con cinque zampe non sono affatto avvantaggiati, e, laddove possibile, li si sottopone a interventi chirurgici.

Questo insegnamento viene corroborato dagli esperimenti condotti su alcuni batteri. Sono stati scelti questi organismi, in quanto particolarmente sensibili alle mutazioni e in quanto si riproducono in maniera talmente rapida che in una settimana di laboratorio si succedono cinquanta generazioni di questi esseri, ovvero l’equivalente di mille cinquecento anni nell’uomo! Il biologo Richard Lanski, e la sua équipe,  sono famosi per aver intrapreso da quaranta anni,  presso l’università del Michigan, un programma relativo alla mutazione di cinquanta ceppi del batterio Escherichia Coli (il colibacillo). Le variazioni ottenute riguardano tutto al più lo spessore della membrana cellulare e l’assimilazione di alcuni sostrati. Si tratta di adattamenti di scarsa importanza, mai di veri e propri salti evolutivi come potrebbe essere per esempio il passaggio ad un essere pluricellulare. Come si può credere a partire da questi risultati all’apparizione per mutazione di un nuovo organo funzionale nel ceppo che ne era sprovvisto? Come faceva notare ironicamente il Prof. Pierre-Paul Grassé, se si volesse dimostrare la stabilità delle specie, non si potrebbe far meglio di tutti questi esperimenti sulle mutazioni!

In effetti si tratta sempre di cambiamenti di portata minima, che vertono sui caratteri cosiddetti «secondari» come il colore degli occhi, la quantità di peli o la forma del naso nell’uomo, ciò che talvolta denominiamo impropriamente «microevoluzione». Questi fenomeni ben attestati di adattamento oppure variazioni ereditarie restano impossibili da paragonare a quanto sarebbe una «macroevoluzione», ossia un’innovazione organica reale, un salto da una specie ad un’altra che costituirebbe l’evoluzione in senso stretto.

Se ci trovassimo nell’ambito della scienza ordinaria, questa teoria sarebbe stata abbandonata da molto tempo, dato che non sono mai messe in dubbio la variabilità all’interno della specie e la capacità di adattamento del vivente. All’epoca, Darwin ebbe un grande antagonista in Louis Agassiz (1807-1873), uno svizzero specialista di pesci fossili, membro fondatore dell’Accademia delle Scienze americana, colui che ha conferito questo nome all’era «glaciale». Agassiz definiva l’essere vivente proprio in virtù della sia «pieghevolezza», ossia a seguito delle grandi differenze e delle varianti che si notano all’interno della specie tra gli individui: differenze di dimensioni, di forma, di peluria ecc. Pensiamo ai pony delle Shetland, al cavallo da tiro, al chihuahua e al San Bernardo. In questi casi, l’adattamento e la selezione hanno svolto la loro opera. L’idea di Darwin era che questo adattamento andasse nel senso di una «trasformazione», di un passaggio da una specie ad un’altra. Non è nulla di tutto ciò. Tutti i cani hanno lo stesso numero di ossa, posti nello stesso ordine. La grande variabilità della specie non ha nulla a che vedere con la «macroevoluzione», definita come il passaggio da una specie ad un’altra. La grande confusione attuale (volontaria?) consiste nell’attribuzione di tutte le argomentazioni evidenti, derivanti dalle variazioni adattative ereditarie, ad una falsa macroevoluzione (che sarebbe un altro fenomeno, ancora mai osservato). Questa è un’estrapolazione ingiustificata.

In ambito scientifico, un procedimento accettato è l’estrapolazione, per mezzo della quale un’affermazione viene estesa al di là del campo di osservazione. Si ritiene che una regolarità, constatata per un lasso di tempo sufficientemente lungo, continuerà a manifestarsi. La previsione di un’eclissi (estrapolazione verso il futuro) oppure un sondaggio elettorale (estrapolazione di un campione per l’insieme della popolazione), delle estrapolazioni. Tuttavia l’estrapolazione ha senso solo se all’interno di essa si afferma una nozione identica a quella osservata.

In realtà, l’osservazione degli esseri viventi mostra la permanenza delle specie: la variabilità (che è considerevole) resta sempre all’interno della specie. In questo modo le mutazioni provocate nell’arco di decine di anni sulla mosca drosofila o sul colibacillo non hanno mai fatto apparire nulla se non dei drosofili o dei colibacilli. La regola esigerebbe quindi che se ne estrapoli la stabilità della specie in quanto tale. Tuttavia il ragionamento evoluzionista consiste a sostenere che, nel tempo, avverrà il contrario.

Un po’ di umorismo: la parola appartiene all’uomo; essa costituisce pertanto la sua caratteristica principale della quale l’evoluzionismo deve giustificare l’apparizione. Seguendo questa linea di pensiero l’«antenato», l’animale più simile all’uomo, deve essere per forza di cose il pappagallo, l’unico in grado di articolare delle parole (mentre la scimmia è priva di faringe per questo gli esperimenti condotti dagli anni 1930 per cercare di far parlare le scimmie non hanno mai successo). La transizione più credibile tra l’animale e l’uomo dovrebbe quindi passare dal pappagallo, predecessore più vicino all’uomo per quanto riguarda la sua caratteristica fondamentale!

In realtà il pappagallo non parla; pronuncia soltanto dei suoni, ma senza impiegare le zone della corteccia cerebrale proprie del linguaggio, poiché esse non esistono nel suo cervello molto piccolo.

La saggezza, così come la scienza, vorrebbero che venga abbandonata l’idea della macroevoluzione, dato che tutto dimostra che quest’ultima è impossibile!

 

2 pensieri su “L’impossibilità della «macroevoluzione»  

  1. Nel mio libro “Darwin ha sbagliato” abbiamo risolto il problema : non è possibile passare poco per volta da una specie all’altra per il semplice motivo che non è possibile passare da un numero intero ad un altro numero intero. E tutte le specie hanno un numero fisso di cromosomi, sempre intero !

    (anche P.G.Odifreddi adesso lo sa, ma non parla più)

    Saluti carissimi. ing Piero Barovero

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